Per Vittorio Feltri il simbolo è stato svuotato di significato: “È diventato uno strumento di propaganda inconsapevole che legittima anche la violenza”.
La crescente diffusione della bandiera palestinese in eventi pubblici, manifestazioni e spettacoli ha sollevato un acceso dibattito. Sempre più spesso il vessillo bianco, nero, verde e rosso compare su balconi, palchi e social network come presunto segno di giustizia e solidarietà. Ma, secondo il giornalista Vittorio Feltri, dietro questo gesto si cela una pericolosa banalizzazione. In una lettera pubblicata in risposta a Marco Bortoli, Feltri si interroga: che cosa rappresenta oggi questa bandiera? E chi sono coloro che la esibiscono con tanta leggerezza?
Nella sua replica, Feltri prende una posizione netta. Secondo il direttore editoriale, la bandiera palestinese non può essere assimilata a un’icona di pace o libertà, come spesso accade, ma è ormai divenuta simbolo del potere di Hamas, organizzazione che Feltri definisce “terroristica, fondamentalista e brutale”. Per lui è assurdo accostare questo vessillo a quello del movimento Lgbtq, spesso sventolato negli stessi contesti. “Dietro Hamas ci sono persecuzioni contro donne, omosessuali, dissidenti. Accostare quei simboli è grottesco”, scrive. La sua lettura è chiara: chi brandisce quel simbolo, senza conoscerne il significato, finisce per legittimare un sistema di oppressione.
A scatenare la riflessione è stato il gesto della cantante Elodie, che ha mostrato la bandiera palestinese sul palco di San Siro. Un’azione che per Feltri rappresenta tutta la confusione ideologica del nostro tempo. “Come può una paladina dei diritti civili identificarsi con un simbolo legato a un contesto in cui le donne sono segregate e gli omosessuali perseguitati?”, si chiede. Il giornalista accusa lo spettacolo italiano di seguire una moda più che un ragionamento, un “conformismo ideologico che prende il posto della comprensione storica”. Per Feltri, la logica è quella dell’apparenza militante, ma priva di sostanza.
Secondo Feltri, quello a cui stiamo assistendo è un “cortocircuito morale” in cui gesti simbolici diventano scelte politiche inconsapevoli. “Si arriva a legittimare la violenza, lo stupro come resistenza, l’omicidio come lotta”, scrive. La bandiera, trasformata in accessorio identitario, finisce per coprire i crimini e le contraddizioni che rappresenta. E chi la usa, spesso, lo fa per convenienza, per rafforzare la propria immagine pubblica, più che per vera convinzione. Il giornalista conclude con un invito alla responsabilità: “Ogni simbolo è una dichiarazione di valori. E quei valori vanno conosciuti, non semplicemente esibiti”. In un’epoca segnata da prese di posizione istantanee, il rischio è che l’attivismo diventi un atto estetico e non una scelta consapevole.