Suicida a soli 14 anni, il padre non ha dubbi “E’ stato Instagram a istigare mia figlia ad uccidersi”

Molly Russell aveva 14 anni quando una sera, ha messo fine alla sua vita. I genitori, ancora oggi, cercano delle spiegazioni per la tragedia che li ha colpiti.

E a un certo punto hanno deciso di guardare i suoi profili social, e in particolare Instagram, la piattaforma più amata da questa generazione. Qui hanno scoperto il mondo cupo in cui la figlia viveva, fatto di immagini in bianco e nero, foto di braccia tagliate, profili concentrati sulla depressione, l’autolesionismo, il suicidio.

Persino hashtag, che raggruppavano questo materiale doloroso e anche pericoloso. Materiale che Molly Russel scorreva sullo schermo del suo smartphone. Il padre Ian non ha dubbi e dalle telecamere della Bbc ha lanciato la denuncia: «Instagram ha spinto mia figlia ad uccidersi».

La parziale responsabilità, secondo Ian Russel — che oggi ha aperto un’associazione per evitare casi come quello di sua figlia, per aiutare a prevenire i suicidi — sta nella totale libertà degli algoritmi di continuare a suggerire all’utente pagine e post coerenti con le sue ricerche e i suoi interessi. Senza fare differenze tra il consiglio di seguire un hashtag come #fiori o uno come #suicidio.

Se si cerca quest’ultimo, l’unica limitazione è un avviso: «I post con parole o tag che cerchi spesso incoraggiano comportamenti che possono causare dolore o condurre anche alla morte. Se stai vivendo una situazione difficile, saremmo lieti di aiutarti».

L’avviso esce anche su hashtag come #depression o #autolesionismoanoressia, ma non, ad esempio su #depressione o #anoressia. Basta poi premere «Vedi il post comunque» per saltarlo. Instagram dà anche la possibilità di ricevere assistenza, un pulsante pensato per quelle pagine che cercano effettivamente di aiutare chi soffre di questi disagi a trovare qualcuno con cui parlare tramite una piattaforma che conoscono e usano quotidianamente.