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Imprenditore accusato erroneamente per un caso di omonimia, assolto dopo 8 anni: “Bastava controllare l’Iban”

Una società milanese è finita sotto processo per frode fiscale per errore: bastava verificare l’Iban per scagionare l’imputato sin dall’inizio.

Accusato per errore, assolto dopo anni di processo per una frode mai commessa

È terminato con un’assoluzione piena il processo a carico di un imprenditore milanese coinvolto, per un errore investigativo, in una maxi inchiesta per frode fiscale. La vicenda ha avuto origine da un caso di omonimia tra due società: una regolarmente operativa in Lombardia, attiva nel settore energetico, e un’altra con sede legale a Firenze, al centro di un’indagine condotta dalla Procura di Trieste per frode carosello. I fatti contestati ruotavano intorno a presunte fatture per operazioni inesistenti, ma a finire sotto accusa è stata l’azienda milanese, totalmente estranea all’attività illecita.

L’equivoco è nato da una somiglianza nominale tra le due società. Secondo quanto ricostruito dalla difesa, la Guardia di Finanza avrebbe attribuito alla società lombarda alcuni bonifici sospetti senza verificare l’effettiva provenienza dei fondi. In realtà, il conto corrente da cui sono partiti i trasferimenti era intestato alla società toscana. A confermarlo, già nel 2019, era stata una memoria difensiva inviata alla Procura di Milano dall’avvocato Renato Maturo, difensore dell’imprenditore, che aveva indicato il codice IBAN come elemento chiarificatore.

L’evidenza ignorata e le conseguenze per l’imputato: “Un danno incalcolabile”

Nonostante la segnalazione, le autorità giudiziarie non hanno mai fornito riscontro. «Inviai una memoria alla Procura di Milano spiegando chiaramente che il conto corrente da cui partivano i bonifici non apparteneva alla società del mio assistito, indicando il codice IBAN come prova. Ma non ho mai ricevuto risposta. Sette richieste di aggiornamento, inviate via Pec, sono rimaste senza riscontro», ha dichiarato l’avvocato Maturo.

La società del suo assistito è rimasta bloccata per otto anni, con gravi ripercussioni sull’operatività e sull’immagine aziendale. Secondo il legale, il processo avrebbe dovuto coinvolgere i reali intestatari della ditta toscana, i cui gestori – due cittadini stranieri residenti a Scandicci – non sarebbero mai stati indagati. «Il danno più grande è che i veri responsabili non sono mai stati neppure interrogati. E a settembre scatterà la prescrizione», ha aggiunto.

La sentenza di assoluzione, emessa con la formula “perché il fatto non sussiste”, ha evitato all’imprenditore anche il rischio di una confisca per equivalente dei beni personali, prevista in caso di condanna per reati tributari. Tuttavia, la vicenda ha avuto un impatto significativo anche sul piano umano. «Se fosse stato condannato, avrebbe potuto perdere la casa», ha riferito l’avvocato, che ora sta valutando un eventuale esposto al Consiglio Superiore della Magistratura per segnalare le irregolarità riscontrate nella gestione del procedimento.