Parla il procuratore che ha ottenuto la condanna del gioielliere a 17 anni “Persone rincorse e abbattute in quel modo. Agghiacciante”

Il procuratore Mazzeo discute la condanna a 17 anni di reclusione di Mario Roggero per l’uccisione dei rapinatori nel suo negozio.

La condanna del gioielliere e le prove decisive

Nel corso del processo che ha visto al centro Mario Roggero, il gioielliere di Grinzane Cavour che nel 2021 uccise i ladri armati di pistole giocattolo nel suo negozio, sono emersi elementi chiave che hanno portato alla sua condanna.

 Il filmato delle telecamere di videosorveglianza, fornito dallo stesso Roggero, ha giocato un ruolo cruciale nel processo. Il nucleo del dibattimento si è concentrato sullo stato mentale di Roggero al momento del fatto e sulla legittimità o meno del suo agire come un “atto di difesa”.

Le accuse e la sentenza

Il processo si è sviluppato nel tentativo di discernere se, nei momenti critici dell’incidente, Roggero fosse in uno stato psichico alterato o completamente lucido.

Oltre al porto illegale di arma da fuoco, Roggero è stato accusato di omicidio doloso plurimo e tentato omicidio di un terzo rapinatore ferito.

Alla fine delle indagini, è stato condannato a 17 anni di prigione, con la corte che ha stabilito l’assenza di una legittima difesa. Gli sono state riconosciute solo le attenuanti generiche per aver reagito a una provocazione.

Riflessioni del procuratore sulla vicenda

In un’intervista al Corriere di Torino, il procuratore di Asti Biagio Mazzeo ha espresso le sue riflessioni sul caso.

“Stavolta è stato l’imputato a servirci le prove su un piatto d’argento, il video. Le telecamere erano sue. Chiunque le abbia viste ha avuto una reazione di repulsione, per quel che è avvenuto: persone rincorse e abbattute in quel modo. Agghiacciante”

ha affermato Mazzeo, sottolineando la gravità delle azioni di Roggero e il suo mancato pentimento. Ha aggiunto:

“Dal punto psicologico è possibile che una persona maturi una certa voglia di rivalsa, e lo capirei, ma non è ovviamente una giustificazione. E non lo giustifico. Non provo mai piacere quando una persona viene condannata, al massimo ci può essere soddisfazione se il nostro lavoro è stato fatto bene. Dopodiché, resta una vicenda triste, pensare che una persona, se la sentenza verrà confermata nei prossimi gradi, dovrà scontare il carcere. Ma noi dobbiamo applicare la legge, e mettere l’aspetto emotivo da parte. Se la Procura e la corte d’Assise, composta anche da giudici popolari, l’ha condannato, forse qualche domanda dovrebbe farsela.”