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Feltri, “Il carcere non è un centro di soggiorno gratuito, rimpatriare i migranti è doveroso”

Con quasi 20mila stranieri nelle nostre carceri, il sovraffollamento è insostenibile. Rimpatriarli non è discriminazione: è logica, giustizia ed economia.

Un sistema al collasso e una politica che tace

Il sistema penitenziario italiano è al collasso. Lo denunciano da anni gli agenti, lo dimostrano i numeri, lo urlano i familiari delle vittime e persino chi ancora crede nella funzione rieducativa del carcere. Ma in Parlamento regna il silenzio. Troppo scomodo dire una verità semplice: se rimpatriassimo i detenuti stranieri, gran parte dei problemi carcerari si risolverebbe.

I dati ufficiali del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, aggiornati al 31 maggio 2025, parlano chiaro: a fronte di una capienza regolamentare di 51.296 posti, i detenuti sono 62.761, cioè oltre 11.000 in più. Di questi, 19.810 sono stranieri. Basta fare due conti: rimpatriandoli, i carcerati scenderebbero a 42.951, ben sotto la soglia limite. Celle vivibili, tensioni ridotte, condizioni igieniche accettabili. Non è utopia, è aritmetica.

Il costo insostenibile dell’ideologia buonista

Ogni detenuto costa allo Stato circa 150 euro al giorno. Tradotto: 2.971.500 euro al giorno per i soli stranieri. In un mese: quasi 90 milioni. In un anno: oltre un miliardo di euro. Una follia. Con quella cifra si potrebbero assumere agenti, costruire nuovi padiglioni, istituire veri corsi di reinserimento, potenziare la sanità penitenziaria. E invece? Si mantiene chi, in larga parte, non dovrebbe nemmeno trovarsi sul nostro suolo.

E non si venga a parlare di diritti. Perché i diritti devono andare di pari passo con i doveri. Se hai violato la legge e sei ospite irregolare, non hai diritto a nulla se non a tornartene a casa tua a scontare la pena. Nessuno Stato serio ospita e coccola chi lo ha oltraggiato. Il carcere non può essere un resort pagato dagli italiani per chi ha commesso crimini e non ha alcun legame con l’Italia, se non la sua permanenza illecita.

Chi porta la divisa merita rispetto, non ipocrisia

Mentre spendiamo montagne di soldi per detenuti stranieri, gli agenti penitenziari vivono l’inferno. Turni massacranti, organici ridotti, aggressioni continue, assenza di tutele. È l’unico comparto dello Stato dove la violenza è quotidiana e dove si lavora nell’indifferenza generale. Eppure nessuno li ascolta. Nessuno propone una soluzione concreta. Perché parlarne significa rompere il tabù del buonismo ideologico, quello che ti impedisce persino di dire che forse, a casa loro, i detenuti starebbero meglio. E anche noi.

La Costituzione ci ricorda che la pena deve avere funzione rieducativa. Ma quale recupero è possibile in celle sovraffollate, sporche, degradate? In che modo può riscattarsi un uomo se dorme per terra, se vive nell’angoscia, se non ha nemmeno la possibilità di lavorare o studiare? Nessuno. Il fallimento parte da lì. E chi finge di non vedere, è complice.

Chi ha il coraggio di parlare di queste cose viene accusato di disumanità. Ma la vera disumanità è quella di chi continua a difendere un sistema ingiusto, che penalizza chi serve lo Stato e chi, fra i detenuti italiani, vorrebbe davvero ricominciare.

Serve una decisione politica netta. Rimpatriare i detenuti stranieri non è un atto di razzismo. È buonsenso allo stato puro, rispetto per la legge, per le forze dell’ordine e per chi crede ancora che l’Italia possa essere uno Stato giusto.