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Pd nel caos sui referendum: riformisti sotto ricatto, Schlein detta la linea e Renzi li sfotte

Tra veti, minacce sulle liste e strategie silenziose, la minoranza dem barcolla: “Sì a due quesiti, sugli altri cali il silenzio”. Ma il vero obiettivo è il congresso anticipato

Riformisti Pd sotto pressione

Nel Partito Democratico si respira un’aria da ultimatum. Con Elly Schlein determinata a guidare il partito “con una sola voce”, quella sua e di Maurizio Landini, la minoranza riformista cerca disperatamente una via d’uscita. Il tema è quello dei cinque referendum dell’8 e 9 giugno, tra cui spiccano quelli contro il Jobs Act. E il dilemma è politico prima ancora che elettorale.

A riassumere il clima teso è Matteo Renzi, che affonda il colpo: “Mi colpiscono i miei amici riformisti del Pd, cui la segreteria ha detto: o votate sì o non avrete spazio nelle liste”. Un avvertimento che suona come un ricatto e che ha spinto la corrente riformista a riunirsi in gran segreto per trovare un compromesso che eviti la frattura.

Il compromesso silenzioso

La linea emersa è chiara: voto favorevole solo ai quesiti sulla cittadinanza e sulla responsabilità delle imprese, mentre sugli altri tre – legati al Jobs Act – non voto o voto contrario, ma senza fare rumore. Nessuna dichiarazione ufficiale, nessun distinguo plateale. L’unica regola: non disturbare il manovratore.

Tra i più esposti c’è Alessandro Alfieri, che con tono diplomatico ha ammesso: “Il Jobs Act erano otto deleghe. Alcune hanno funzionato, altre no. Serve un tagliando. La strada è il Parlamento”. Ma il Parlamento, per ora, è fuori dai giochi: Schlein ha firmato i quesiti e guida la campagna referendaria come fosse una conta interna.

Il Pd come campo di battaglia

Nel mirino della segretaria c’è il traguardo simbolico dei 10 milioni di voti, sognando persino di eguagliare i 12 milioni ottenuti dal centrodestra nel 2022. Il referendum è il primo passo verso un nuovo slancio elettorale che guarda già alle regionali d’autunno: Veneto, Toscana, Marche, Puglia, Campania e Valle d’Aosta sono le tappe chiave di una battaglia per la leadership dell’opposizione.

Ma in questa corsa la minoranza interna rischia di diventare il bersaglio. Schlein non vuole primarie di coalizione, punta a tenersi stretto il Rosatellum e a blindare la propria candidatura come unica leader del campo largo. Un campo dove il ruolo di Giuseppe Conte si fa sempre più ingombrante.

Conte attende e osserva

Dal canto suo, l’ex premier gioca d’astuzia: non si espone sui referendum, aspetta che Schlein inciampi nella gestione del Pd e si propone come l’unico interlocutore credibile del centrosinistra. Il suo obiettivo è chiaro: logorare la segretaria dem attraverso le crepe interne, per poi imporsi come vero leader dell’alternativa a Meloni.

Intanto, Andrea Orlando sogna un congresso anticipato: “Facciamolo ora, senza il condizionamento degli appuntamenti elettorali”. Una spinta che potrebbe diventare realtà se Schlein fallisse l’assalto ai 10 milioni di voti.

Tra silenzi e ambizioni

Nel Pd si agita un “House of Cards” tutto italiano, dove le alleanze cambiano, le lealtà si affievoliscono e i calcoli personali prevalgono. Il referendum è solo la prima tappa. Il vero campo di battaglia sarà il futuro del partito. E per molti, la sopravvivenza politica si gioca sul filo di una firma o di un silenzio.